Accesso in Terapia intensiva: una decisione complessa, non solo clinica
Stabilire quali pazienti debbano avere accesso alla Terapia Intensiva è una delle decisioni più delicate della medicina moderna.
Non si tratta solo di valutare parametri clinici o di garantire l’accesso alle tecnologie più avanzate, ma di considerare la globalità della persona, i suoi valori, la qualità di vita attesa e le conseguenze fisiche ed emotive per il paziente e la sua famiglia.
La Terapia Intensiva, infatti, può rappresentare un’opportunità di salvezza, ma anche un’esperienza traumatica, con un impatto profondo sulla traiettoria di vita di chi ne esce.
Triage, futilità e il concetto di beneficio
Due sono i principi su cui tradizionalmente si basa l’accesso alla TI: il triage e la futilità terapeutica.
Il primo punta a individuare chi può trarre beneficio dal ricovero intensivo; il secondo mira a evitare cure sproporzionate in pazienti in condizioni ormai irreversibili.
Ma cosa si intende per beneficio? E chi è autorizzato a definirlo? Il concetto di “trattamento utile” è spesso sfumato, specialmente in situazioni complesse come la pandemia da Covid-19, che ha messo in luce le criticità del sistema e il rischio di discriminazioni basate su età o disabilità.
Il processo decisionale, quindi, non può prescindere da una riflessione etica e personalizzata.
Score prognostici: strumenti utili, ma non sufficienti
Nel tentativo di oggettivare le decisioni, molti reparti si avvalgono di strumenti predittivi come l’APACHE, il SAPS o il Charlson Comorbidity Index.
Questi score aiutano a stimare il rischio di mortalità sulla base di parametri clinici e comorbidità, fornendo un quadro più strutturato.
Tuttavia, la loro validità dipende fortemente dal contesto in cui vengono applicati e dalla qualità dei dati inseriti.
Inoltre, possono introdurre bias sistemici e non tengono conto della volontà del paziente, della sua resilienza o delle sue condizioni sociali. Devono dunque essere usati come supporto, non come unica guida.
L’influenza dell’età e della disabilità: riconoscere i pregiudizi
Nel valutare l’accesso alla TI, l’età anagrafica e la presenza di disabilità possono inconsapevolmente influenzare le scelte.
Il cosiddetto “ageismo” porta a considerare gli anziani meno degni di cure intensive, mentre l’“abilismo” penalizza le persone con disabilità, ritenute erroneamente meno capaci di recupero o con una qualità di vita intrinsecamente inferiore.
Ma l’età biologica può differire molto da quella anagrafica, e le persone con disabilità hanno pieno diritto a essere coinvolte nelle decisioni che le riguardano. Superare questi pregiudizi significa garantire equità, dignità e inclusione nelle scelte cliniche.
Fragilità e Terapia Intensiva: un parametro globale da considerare
La fragilità non è una diagnosi medica, ma uno stato multidimensionale che include aspetti fisici, psichici e sociali. Rende il paziente più vulnerabile agli stress clinici e meno capace di recupero.
Per questo è utile includere la valutazione della fragilità nei criteri di accesso alla TI, usando scale come la Clinical Frailty Scale.
Tuttavia, anche questo parametro deve essere interpretato con cautela: applicare gli stessi criteri a pazienti con e senza disabilità può generare errori, e l’etichetta di “fragile” non deve diventare un nuovo pretesto per escludere.
Decisione condivisa e Terapia Intensiva: un modello da promuovere
In scenari di grande incertezza, il modello della shared decision-making (SDM) rappresenta un punto di riferimento fondamentale.
Coinvolgere il paziente o i suoi familiari in un processo decisionale trasparente e collaborativo permette di allineare le scelte cliniche con i valori, le aspettative e la qualità di vita desiderata.
La comunicazione gioca qui un ruolo chiave: incontri programmati, linguaggio chiaro, ascolto attivo e strumenti di supporto possono fare la differenza, migliorando la soddisfazione del paziente, riducendo lo stress dei familiari e prevenendo il burnout degli operatori.
Le DAT e il consenso informato: tutelare l’autodeterminazione
La legge 219/2017 ha introdotto in Italia uno strumento fondamentale per il rispetto della volontà del paziente: le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT).
Si tratta di un’espressione preventiva delle proprie scelte in ambito sanitario, utile quando il paziente non è più in grado di comunicare.
Accanto alle DAT, la pianificazione condivisa delle cure consente di costruire un progetto terapeutico coerente con la storia clinica e personale dell’individuo.
Il medico ha la responsabilità di proporre trattamenti proporzionati e, in caso di prognosi infausta, astenersi da cure inutili o dannose.
La proporzionalità delle cure in Terapia Intensiva: dignità come obiettivo finale
Ogni progetto terapeutico in Terapia Intensiva dovrebbe fondarsi su un principio guida: la proporzionalità. Non si tratta solo di salvare vite, ma di farlo quando esiste una reale possibilità di recupero e di ritorno a una qualità di vita dignitosa.
Le cure devono essere coerenti con le aspettative del paziente, utili nel superare la fase acuta e non eccessivamente gravose o invasive.
Quando questa proporzionalità viene meno, l’alternativa non è l’abbandono, ma la transizione a cure palliative, che garantiscano conforto e rispetto fino alla fine.
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